Ci sono decisioni che pesano più di altre. Non solo per gli effetti immediati che producono, ma per il segnale che lanciano.
La misura contenuta nella nuova legge di bilancio – l’eliminazione, dal luglio 2026, della possibilità di compensare il credito derivante dal recupero delle accise sul gasolio – è una di queste.
Un provvedimento che colpisce al cuore uno dei meccanismi vitali per la tenuta economica e finanziaria delle imprese di autotrasporto.
Per anni la compensazione ha rappresentato non un privilegio, ma una necessità: una valvola di equilibrio in un settore strutturalmente sottocapitalizzato, dove la gestione della liquidità è già di per sé un esercizio di sopravvivenza quotidiana.
Il credito d’accisa, come noto, non è un incentivo ma un riconoscimento parziale dei costi sostenuti da chi garantisce un servizio essenziale alla collettività, muovendo merci, prodotti e beni lungo un Paese che vive di logistica.
Togliere la possibilità di compensarlo con contributi, ritenute e imposte significa aggravare la posizione finanziaria di migliaia di aziende, grandi e piccole, molte delle quali rischiano di non riuscire più a reggere l’urto.
Il danno non si limita alle imprese.
Una norma di questo tipo mette in tensione anche gli stessi enti pubblici strumentali che dovranno continuare a ricevere oneri e versamenti, mentre il flusso di liquidità nel settore si contrae.
È un effetto domino che non tarda a manifestarsi: la riduzione della capacità di investimento, l’impossibilità di rinnovare i mezzi, il rallentamento dei flussi di pagamento verso fornitori e dipendenti, la perdita di competitività nei confronti dei vettori esteri.
Il paradosso è che questa misura arriva in un momento in cui l’autotrasporto italiano, già stretto tra l’aumento dei costi energetici, la volatilità del mercato e le carenze infrastrutturali, avrebbe invece bisogno di certezze e di una prospettiva di stabilità.
Una politica che penalizza la compensazione dei crediti non produce risparmi, ma genera instabilità e sfiducia. E questo, in economia reale, è il terreno più pericoloso.
Si tratta di una scelta che non guarda alla concretezza delle aziende.
Chi guida un’impresa di trasporto conosce la fatica di mantenere in equilibrio i conti, di pagare puntualmente stipendi, contributi e assicurazioni, mentre i margini si assottigliano e i tempi di incasso si allungano.
In questo contesto, togliere uno strumento di compensazione significa sottrarre un’arma difensiva a chi già opera in condizioni di estrema fragilità.
Per il settore, la misura è più di un errore tecnico: è una decisione che rischia di spezzare la continuità operativa di molte realtà sane.
Ecco perché l’autotrasporto reagirà. Non per spirito polemico, ma per necessità.
Perché difendere la possibilità di compensare non è chiedere un vantaggio, ma garantire la sopravvivenza di un comparto che sostiene il 90% dei flussi commerciali interni del Paese.
Serve un ripensamento immediato. Serve una politica industriale che riconosca l’autotrasporto come infrastruttura vitale, non come voce di costo da ridurre.
Se l’obiettivo del Governo è davvero quello di sostenere la crescita, questa norma va corretta prima che diventi irreversibile.
Non si tratta di pessimismo, ma di responsabilità.
E se in questi anni abbiamo imparato qualcosa, è che il vero ottimismo non nasce dal chiudere gli occhi davanti ai problemi, ma dal pretendere soluzioni concrete per affrontarli.
E lo dico io che ogni mese cerco di guardare sempre il bicchiere mezzo pieno e di capitalizzare al massimo quelle poche, buone, nuove notizie.
Ma stavolta il colpo sarà duro, molto duro ed altrettanto la risposta.
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